lunedì 24 gennaio 2011

LA PARABOLA DELLO SCRITTORE DILETTANT

(La mia verità sul dilettantismo digitale)

Uno scrittore professionista è un dilettante che non ha mai smesso di scrivere.

(Richard Bach, Un dono d'ali, 1974)

Sono nato nel 1989. La mia generazione è cresciuta dal primo anno di vita in
Internet. Arpanet a quell’epoca collegava già più di centomila computer e sarebbe
sparito l’anno dopo per dare spazio al linguaggio html. Nel 1991 il CERN annuncia la
nascita del World Wide Web. Da lì tutto cambia. Nei primi anni 2000 ero “abbastanza
grande” per usare il computer e sono diventato uno dei 200 milioni di utenti in tutto
il mondo. Al momento attuale gli utenti sono più di un miliardo il che equivale a un
sesto della popolazione mondiale. Detta in questi termini la situazione non è così
grande come in realtà è, visti gli altri milioni di persone che coinvolge indirettamente
o direttamente il Web.

Il mio primo approccio alla rete, al Web 1.0, è stato nel 2000, a 11 anni, con un
computer dinosauro che occupava gran parte della mia scrivania. Windows 98,
pixel grandi come dadi. La vera svolta e il mio ingresso ufficiale nel mondo della
rete è proprio a cavallo di quel dinosauro con una risoluzione bassissima. Nel 2001
Il primo sito che ho conosciuto davvero è stato libero.it, che fino a qualche mese
fa compariva anche come dominio nel mio indirizzo e-mail con un imbarazzante
soprannome che usavo a quell’epoca. Libero mi ha introdotto ai primi, rudimentali
metodi di ricerca anche se rimaneva paurosamente complesso da capire per me,
bambino di periferia con la predilezione al campo da calcio vero piuttosto che
a quello virtuale. Per i primi anni le e-mail sono tutto ciò che ho utilizzato della
rete, insieme alla modalità di ricerca on-line dell’enciclopedia virtuale Encarta. Il
99% delle mie ricerche scolastiche delle scuole elementari e medie partivano da
Encarta. Era la mia salvezza. Una Wikipedia ante tempore che ha chiuso i battenti
nel 2009 certamente a causa del predominio incontrastato della cultura “wiki” e del
suo più grande output: Wikipedia. Dalle mail su libero e dalle ricerche su Encarta
in pochi anni le cose sono cambiate ad una velocità impressionante. Come tutti i
miei coetanei ho salutato con meraviglia l’arrivo nel 2003 di Msn Web Messenger e
della sua chat che mi ha fornito di certo il primo modo di comunicare velocemente
senza spendere una lira (oltre certo a quello più normale, ma ormai banale che era
diventato il telefono fisso o lo spostamento materiale).
Le mie ambizioni di giornalista hanno cominciato a prendere forma concreta proprio
in quell’anno. Sono diventato uno scrittore “dilettante” (come mi chiamerebbe
Andrew Keen) nel 2005, a sedici anni quando ho pubblicato il mio primo pezzo sul
mio primo blog. La piattaforma era Msn Windows Live ed ero affascinato in modo
totale dalla prospettiva di poter urlare al mondo ciò che pensavo. Ero un adolescente
traboccante di ideali, di passioni e di speranze. E potevo parlare ad un pubblico
vastissimo. Mi ci sono gettato a capofitto anche grazie al nuovo computer che avevo
comprato. Una macchina relativamente più piccola della precedente con uno
splendente schermo piatto a diciassette pollici. Nella mia carriera di scrittore, lo
preciso, tre cose sono state fondamentali: le piattaforme su cui ho scritto, le machine
che ho usato e il nome con cui mi firmavo. Per quanto riguarda la firma, ho sempre
usato il mio nome e il mio cognome. Volevo, narcisisticamente che le mie opere mi
venissero attribuite. Volevo, già da ragazzino che la gente sapesse che ero io a
scrivere. Non mi sono mai nascosto dietro nickname. Probabilmente è anche di me

che parla Keen quando teorizza il narcisismo digitale e le sue implicazioni. Il Web mi
ha aiutato ad uscire dal guscio, mi ha permesso di dare concretezza, tramite l’upload
dei mie testi, alle mie idee. Il mio blog, però, per il primo anno venne seguito da una
persona. Fu una sofferenza colossale. Una mia compagna di classe del liceo, la mia
unica e a quel punto triste lettrice però per mesi mi esortò a continuare perché
(inspiegabilmente) le piaceva il modo in cui scrivevo. Dopo qualche mese la mia
prima lettrice cominciò a pubblicare i miei pezzi sul suo blog, molto più frequentato e
letto del mio e di colpo venti, trenta persone al giorno mi leggevano. Lentamente i
numeri sul contatore del mio blog cominciarono a crescere sempre più. Cominciavo a
scrivere pezzi sempre più ben congegnati, storie, articoli di critica, racconti inventati,
infiniti pamphlet. Non avevo limiti. Un giorno parlavo di politica, il giorno dopo
raccontavo di cosa significasse per me la parola felicità. Il numero dei mie followers
aumentava e io, dalla mia stanza nel mio paesino, mi sentivo uno scrittore vero. Quel
blog mi ha fatto credere in me stesso, nelle mie capacità o mi ha illuso? mi ha
cacciato fuori strada, mi ha fato credere di essere qualcosa che non ero?
2006. Arriva Facebook, lanciato due anni prima da un nerd di Harward. Entra in un
anno e mezzo in tutti i computer dei ragazzi italiani e in altri due in tutti i cellulari
e tablet. Facebook è la rivoluzione dell'easy-blogging. Una piattaforma unica che
consente di chattare, inviare e-mail, condividere link da ogni parte della rete,
immagini, foto, video, creare eventi e in ultimo, ma parte fondamentale dell'idea,
commentare tutto questo.
Sono stato uno dei primi studenti italiani ad utilizzare Facebook perché
nell'estate del 2006 mi trovavo con la mia classe negli Stati Uniti per uno scambio
interculturale. Là Facebook era già il social network per eccellenza e, tornato a casa,
avevo il mio bell’account sul quale ancora oggi si può leggere nelle informazioni
personali alla voce istruzione "Tatnall High School" e alla voce luogo "Willmington,
Delaware".
Facebook è probabilmente il fenomeno della rete che è esploso più rapidamente
e che ha investito il maggior numero di utenti in assoluto. 500 milioni di utenti
nel mondo nel 2010. In italia in due anni si è arrivati a circa 18 milioni di utenti
registrati.
Non potevo più gestire il blog su Msn, ormai abbandonato dalla maggior parte dei
miei amici, e anche la mia pagina Facebook così ho lasciato per sempre il mondo
Msn, la chat, l'indirizzo mail (il secondo della mia vita, molto più imbarazzante
del primo visto che l'avevo creato nel periodo di fissa adolescenziale per Kubrick
e Arancia Meccanica: lattemigliorato@hotmail.it. ). Mi sono tuffato nel mondo
Facebook con un buon curriculum alle mie spalle: due anni di blogging intenso
con un buon numero di visite, letture e commenti. Per qualche mese ho smesso di
scrivere e mi sono concentrato sul modo migliore di utilizzare il social network che
nel mondo stava diventando indiscusso re del Web 2.0. In pochi mesi avevo acquisito
inconsapevolmente , oltre che un’ottima conoscenza del "mezzo" , anche una nuova
grammatica, una nuova semantica, un nuovo modo di parlare. Sono diventato
madrelingua facebookiano. Taggavo continuamente i miei amici nei miei Album
fotografici, Condividevo Link, Mandavo e Ricevevo Richieste di Amicizia, Aggiornavo
il mio Stato.
Lo scrittore che ero stato però scalpitava ancora in me e così ho cominciato a
scrivere Note. Così si chiamano le uniche parti scritte in forma di blog su facebook.
Taggando all'interno tutti gli amici che avevo, oppure alle volte selezionandone
una parte. Decidevo insomma a chi e quando far leggere le mie "opere". Un buon
riscontro anche qui. Molti commenti e a volte la condivisione delle mie parole sulle
pagine di altri mi davano una bella soddisfazione. Ero uno scrittore ancora più

competente.
Dopo aver assimilato ogni aspetto di questa piattaforma ho capito che Facebook è un
gioco. Un gioco nel quale molti, tra cui anche io, riversano le proprie esperienze e le
raccontano senza timori, ma sempre un gioco. Per lo scrittore che volevo essere ci
voleva qualcosa di più serio. In due sensi. Sono passato nello stesso anno a Mac e al
bloggin più serio. Ci è voluto poco per aprire la mia pagina “seria” sulla piattaforma
blogspot.com sulla quale scrivo abitualmente ancora oggi. Sfondo bianco, testo nero.
Quello che conta sono le parole. Nient’altro. Niente foto, niente video, niente orpelli
inutili. I risultati si sono fatti vedere subito: Vengo letto pochissimo. Ma mi sento più
vero.
Facebook ha contribuito all'illusione di essere uno scrittore? ha minato ancora
di più le mie possibilità?
Il Web, nelle sue varie forme è stato a tutti gli effetti il mio primo editore. Nel Web
ho avuto il mio primo pubblico e a dirla tutta nel Web c'è anche il mio "pubblico
attuale". Perchè nel frattempo dal 2010 scrivo per un sito on-line di informazione
sportiva. Con un Capo redattore vero, che mi da compiti veri, in tempi veri (e a volte
molto limitati).
Adesso la mia pagina di Facebook è ancora attiva, ho circa 800 amici, la visito
quotidianamente, carico ancora le mie foto e aggiorno i mie stati. I miei stati, tra
l’altro, vengono commentati molto più dei miei post seri sul mio blog serio.
Il Web 2.0 e tutte le sue implicazioni alla fine dei conti mi hanno aiutato e mi
aiutano tutt’ora. E' anche grazie a quel blog su Msn che ho deciso che avrei studiato
giornalismo all'università, grazie a qui giorni passati a leggere i commenti di
apprezzamento o di critica ai miei post da parte di amici e sconosciuti. La rete in
questo senso mi ha dato la possibilità di avere in poco tempo un riscontro su ciò
che creavo. Da dilettante a dilettanti. Ma non solo perché a volte erano anche alcuni
professori a commentare le mie storie. Essere un dilettante non vuol dire essere un
arrogante. Vuol dire, almeno nel mio caso, voler diventare professionista. A nessuno
sta bene l'attributo dilettante. Nessuno ne fa un vanto. Perché significa essere parte
della massa, un punto indistinto in un mare di account, e, alla fine, in un mare di
0 e 1. Il dilettantismo virtuale in rete mi ha aiutato a capire di voler diventare un
professionista reale. E' stata un ottima palestra. Ma dopo molto allenamento a
chiunque viene voglia di gareggiare sul serio e quindi, fuor di metafora, di entrare
nel mondo reale.
Essere un giornalista dilettante nel mondo del Web 2.0 significa conoscere il più
possibile. Eclettismo è la parola chiave. Un dilettante per essere eclettico ha bisogno
di fonti inesauribli e sempre fresche. Ha bisogno di poter prendere tutto ciò che può
da tutto. Ha bisogno, come nel mio caso, di avere la barra dei link veloci al Web piena
di tutto. Corriere della Sera.it, Repubblica.it, il Fatto Quotidiano.it, Youtube, Times,
Post, Reuters, Behance, Facebook, Twitter, Pianeta-calcio (il sito per cui lavoro),
Google e tanti tanti altri ancora. Un’occhiata sul mondo ottenibile in pochi istanti
seguita poi da un approfondimento dei temi principali. Per poter avere il quadro
completo (anche se di fatto impossibile) bisogna per prima cosa avere le notizie e
poi poterle assaporare, gustare e metabolizzare. Tutto ciò è impossibile da fare in
una sola lettura, in un solo ascolto, in una sola osservazione. Per questo e per altri
motivi il dilettante, io in prima persona, scarica dal Web contenuti. Che siano audio
video o testo. Per poterne avere una lettura più approfondita. Per comprendere
meglio. Per sapere di più e coglierne le sfumature. Ma questo è illegale il più delle
volte e lo si fa tramite siti specializzati nel file sharing.
Ma questo è un male? E’ più importante avere persone colte o persone
ignoranti che non si possono permettere dischi libri e film?

E' vero, forse il Web 2.0 sta uccidendo il mercato culturale, il mercato artistico,
ma non sta impedendo all'arte di vivere. Chi scarica illegalmente commette reato
ma approfondisce la propria cultura personale. Chi scarica illegalmente lo fa
generalmente per prodotti verso i quali non ha un interesse forte. Chiunque abbia
davvero una passione per un gruppo, o un regista prima o poi comprerà il cd o il
dvd. Lo farà perchè la passione è fisica e non basta un file per vederla soddisfatta.
Continuerò a comprare libri, a comprare dvd, a comprare dischi che valgono, ma
continuerò anche a scaricare dalla rete che è diventata “il negozio più vicino a casa”
in cui ci indirizzavano le pubblicità degli anni novanta.
La diffusione della cultura nel Web 2.0 è qualcosa di eccezionale. Il Web è la vera
Esposizione Universale. A tutte le ore, tutti i giorni. Chiunque presenti materiale
culturale su Internet può essere visto da chiunque. Non è questa una delle cose
più importanti per un artista? Cioè diffondere il più possibile le proprie opere, la
propria arte, il proprio modo di vedere il mondo? I soldi non sono mai stai la prima
preoccupazione dell’artista. Chi ha detto che si debba vivere di sola arte? L’arte non
può essere una parte della vita di tutti? Fare l'artista, in qualsiasi campo, non può più
essere un lavoro esclusivo. Fare arte è una passione spontanea e innata nell'uomo
e di sicuro non cesserà di esistere solo perchèèla diffusione virale delle opere porta
alla perdita di denaro in forma di copyright.
Forse la rete sta davvero democratizzando la società ponendo come base la
diffusione libera e fruibile da tutti dei contenuti. Forse davvero la rete allenterà
il gap tra i troppo ricchi e i troppo poveri. Penso a cantanti multimilionari che
vedono le copie dei propri album rimanere nei negozi ma nello stesso tempo venire
scaricati illegalmente a una velocità eccezionale. La coda lunga di Chris Anderson
è esattamente questo. Fare arte potrebbe non bastare più. Ma questo sarebbe un
problema? La differenza tra un dilettante e un professionista si nota subito, esso sia
uno scrittore, un pittore, un musicista o un muratore. Quindi è solo una questione di
dare spazio a tutti, ai professionisti e ai non professionisti.
Probabilmente la rete, che vedo come un enorme libreria non deve spaventare così
tanto. Come in una libreria vera, fatta di mattoni e libri di carta, ci si può trovare
di tutto dentro. Dal best seller campione d'incassi al primo libro di un aspirante
scrittore di diciassette anni di Verona. Dalle raccolte di ricette di Antonella Clerici
alla Critica della ragion Pura di Kant. La base di tutto, il concetto su cui si basa
l'utenza della rete e della libreria è quello di scelta. E la scelta è individuale e unica
perciò diversa gli uni dagli altri.

Il Web 2.0 ha dato delle possibilità a tutte le voci di farsi sentire, ma non ha
obbligato tutti ad ascoltare. Ha permesso anche ad artisti emergenti di farsi conoscere
in poco tempo e da una vasta gamma di utenti, cosa che fino a qualche anno fa era
impensabile. Ci volevano centinaia di concerti per tutto il paese. Ora con un brano su
Myspace si può venir contattati per suonare ovunque, facendo ripartire cosi il mercato
del live che è quello naturale e reale della musica. La rete permette agli artisti di creare
mostre virtuali con le proprie opere che possono vendere tranquillamente on-line. La
rete dà ai giovani artisti una possibilità che gli artisti di vent'anni fa non avevano, quella
di esporre al mondo intero le proprie opere con un click, di ricevere apprezzamenti,
critiche, consigli. Un esempio che calza a pennello è quello dei siti che raccolgono
il meglio delle opere dei designer del Web. Penso a Behance.com, a FFFFound.com.
Piattaforme create per dare risalto ai giovani designers della rete, dilettanti e (il più
delle volte) non. Un altro esempio è quello di MySpace, piattaforma molto conosciuta
in Italia con all’attivo 70.000 gruppi iscritti. Usata principalmente dai gruppi musicali
fornisce blog preimpostati nei quali è possibile inserire foto e brani da ascoltare.

MySpace è forse il più commerciale dei social network nel senso che la maggior parte
dei profili professionali degli artisti sono curati dalle etichette che li gestiscono e quindi
sono solamente pagine pubblicitarie, piene di banners di ogni tipo. Ma MySpace è stato
anche il fortunate trampolino per importanti artisti come gli Artick Monckeys e The
Kooks. Spesso capita che sconosciuti utenti della rete si trasformino in celebrità. In Italia
penso a Willwosh, nickname di Guglielmo Scilla, il ventiduenne romano più conosciuto
di Youtube che grazie ai suoi video divertenti si è guadagnato la parte di protagonista in
un film recente; o a Chiara Ferragni, il cui blog di moda theblondsalad.com, è uno dei più
seguiti della rete e le ha permesso di lavorare con grandi brand della moda mondiale.
Dilettanti con delle potenzialità nel loro campo che la rete ha reso “idoli” e li ha fatti
passare dal mondo virtuale a quello reale.

lunedì 30 novembre 2009

The moon is the only light we see.

Sounds of laughter shades of life
are ringing through my open ears
exciting and inviting me
Limitless undying love which
shines around me like a million suns
It calls me on and on across the universe.

(Across the Universe, The Beatles)

I’ll walk to the depths of the deepest dark forest,
Where the people are many and their hands are all empty
Where the pellets of poison are flooding their waters,
Where the home in the valley meets the damp dirty prison.

(A hard rain's gonna fall, Bob Dylan)

Chiara cammina sul ciottolato bagnato di Corso Vittorio Emanuele, su cui si riflettono i neon brillanti delle vetrine e le luci natalizie appese come liane da una parte all’altra degli edifici. Cammina lentamente stando ben attenta a non pestarne nessuno. Sono così fragili. Tiene il conto dei nomi che legge. Luis Vitton, Salvatore Ferragamo, Giorgio Armani, Mark Jacobs, Dolce & Gabbana, Burberry, Chanel, Valentino, Dior, Prada, Max Mara, Zegna, Cavalli, Ralph Lauren. Sono tante le insegne riflesse, colorate e sfarzose, quasi, se non più di quelle reali sopra le vetrine dei negozi. Fa freddo, siamo alle porte dell’inverno. Chiara è avvolta in una grande sciarpa di lana e ascolta la sua musica continuando questa strana danza tra un mattoncino e l’altro, tra una luce e l’altra. Ha il naso freddo e ogni tanto tira su. Le mani nelle tasche felpate del cappottino nero e i jeans scuri bagnati in fondo. Come succede sempre le parole le escono da sole, o meglio, il film inizia. E’ sempre così. Quando cammina con la musica nelle orecchie questa diventa automaticamente colonna sonora del suo film e le persone attorno a lei attori e attrici che interpretano la loro parte. Allora vede due ragazzi baciarsi sulla strada, una signora che legge un libro su un autobus che passa veloce, un uomo in giacca e cravatta che sembra riflettere sui massimi sistemi che governano l’universo tanto è serio e in un attimo diventano i protagonisti di tre storie diverse. Storie brevi che lei fa durare nella sua mente per minuti interi, il tempo di una canzone, poi via, li lascia tornare alle loro vite. Non sottovalutare il potere infinito dell’immaginazione e non perderlo crescendo, questa è la sua legge. Perché non c’è niente di più dolce e preciso delle nostre fantasie. Ogni tanto si ritrova a fissare chi cammina davanti a lei e prova ad immaginare il suo volto, la sua storia. Allora aumenta il passo e non se lo lascia sfuggire fino a che superatolo gli lancia un’occhiata da dietro la sciarpa e decide se la storia che ha creato è giusta per lui o meno. Riprende allora a camminare, a seguire le luci e le persone. Luci e persone. Ad un certo punto si ferma e si toglie le cuffie dalle orecchie perché qualcosa l’ha attratta. E’ una musica leggera, lontana,ma di un poetico indescrivibile. Segue il suono sotto un portico,poi sotto un altro, gira un angolo, il suono si alza. Sembrano mille violini, uniti insieme, sembra il suono che precede un trionfo, sembra un orchestra, un concerto di musica classica. Non sa cosa aspettarsi e accelera il passo. La strada si allarga in una piccola piazza merlata di negozietti illuminati e al centro, magia. Non è un orchestra, ne tantomeno una musica registrata di qualche negozio. Si ferma attonita e si sposta la sciarpa dalla bocca. Respira lentamente e si avvicina al centro della piazza a piccoli passi. Sono quatro ragazzi, la carnagione scura, i capelli arruffati e strumenti musicali consumati dal tempo in mano. Lasciano andare nella notte suoni celestiali, li lanciano in aria come folate di vento, con gesti veloci ma dolci. Non avranno più di venti trent’anni, una chitarra acustica, una fisarmonica e due violini. Suonano con un sorriso mai visto prima un valzer di Mozart. Ma è un valzer che sa di mille altre cose. Sa di viaggi infiniti, di avventure. Sa dei suoni di tutto il mondo. Sa di sitar indiano suonato in una giornata di caldo afoso, sa di fisarmonica russa in un bar che puzza di vodka, sa di chitarra suonata nella primavera di Marrakesch, sa di sabbia e di acqua salata, di vento e fumo. Sa di montagne innevate e lunghe vesti di lana lavorata, di notti stellate e di fiumi marroni, di città divorate dall’asfalto e di campagne verdi e prosperose, di immensi campi di fiori e di cure pianure di steppa. Suonano con l’intensità di eroi che combattono, lasciando oltre che le note sentimenti intatti, forti, inarrivabili. Tutti questi suoni sono uniti dal sorriso che non si scioglie dai loro volti e li rende magici.
Sono giovani immigrati. Che poi immigrati è la parola più sbagliata. Perché per tutti luoghi che hanno girato sono più viaggiatori. Sono loro, i nuovi Ulisse, i nuovi Sinbad. Hanno attraversato mari infiniti su rottami a motore con poco più che un sacchetto con dentro i loro averi. Sono pieni di storie da raccontare, sono compagni di ventura senza una meta, o forse, con l’unica meta dell’uomo, casa. Li chiamano in molti modi spregevoli, ma una volta sarebbero stati chiamati avventurieri. Chiara li chiama tennisti. Ai loro piedi fodere da tennis raccolgono le monete che persone di buon cuore lasciano loro, le stesse fodere nella quali nascondono i violini per sfuggire alla polizia. Per la maggior parte delle persone non esistono, sono solo una scocciatura ai loro occhi pieni di purezza, senso di giustizia e civiltà. Sono piccoli gruppi, ensemble di quattro cinque elementi. Hanno sulle dita i calli di chi suona da una vita, e di chi non ha mai preso una sola lezione di musica. Hanno imparato ad orecchio le grandi sinfonie, le hanno mescolate ai suoni dei paesi che hanno girato e le ripropongono alla massa stressata dei passanti nelle grandi città.
Chiara è estasiata. Da qualche minuto è ferma, appoggiata ad un lampione della piazza persa in quella musica così vera e avvolgente. Nella sua testa passano le immagini di tutto il mondo, e comincia a viaggiare in silenzio, gli occhi fissi sui cinque giovani artisti. E’ in modo molto particolare e insolito sconvolta. Com’è possibile che da una condizione così umile, bassa, povera possa uscire qualcosa di così bello? E perché questo la turba tanto? La società in cui vive è così malata da aver prodotto l’idea dominante che le qualità di un uomo siano determinate dalla suo status? A quanto pare si perché anche non volendo, prova pietà per loro. In minima parte è vero, il resto è solo sentita ammirazione, ma c’è. C’è quel sottile imbarazzo di chi ha di più di un altro in termini materiali. Quell’imbarazzo che non se ne va anche di fronte ad una dimostrazione di superiorità psicologica dell’altro. Rimane sempre. Perché è insito nella nostra mentalità occidentale che avere di più significa potere di più ad ogni livello. Senza sfumature. Chiara non ci sta. Vuole sconfiggere quell’impostazione di base che la società impone. Sa come funzionano le cose, lo vede in quel preciso istante. C’è chi si ferma ad ascoltare la musica e se ne va indifferente, chi guarda con disprezzo e non si ferma, chi lascia una moneta e si complimenta con i suonatori. Così nella vita. C’è chi la subisce senza imporsi, chi la percorre senza badare agli altri, chi interviene a decidere la propria strada non scegliendo sempre l’alternativa più semplice. Chiara sente dentro un urgenza di conoscere, di non limitarsi al suo campo visivo. Le cose da conoscere, da sperimentare, da toccare con mano o semplicemente da immaginare sono infinite, perché ridimensionarsi allora? Quanto possiamo contenere in noi del mondo? Quanto di tutto ciò che c'è possiamo assimilare? Chiara si promette adesso che farà tutto il possibile per assorbire il massimo di tutto, non vuole essere un indifferente. Non vuole essere un’ombra, un passante sulla terra. Non vuole assolutamente essere come quei passanti in grado solo di disprezzare. E qui cambia tutto, in un attimo. Ci sono determinati momenti nella vita di ognuno di noi in cui avvengono cambiamenti apocalittici. Qualcosa anche di piccolo fa scattare un meccanismo strano e ancestrale insito da sempre nella natura dell’ uomo. Una presa di coscienza. Per Chiara è questo il momento. Coglie il significato più delicato, meno superficiale della situazione. Coglie la disparità di condizione tra persone ma la sente come un valore aggiunto. Purtroppo o per fortuna questo cambiamento è una cosa personale, individuale che quindi non mette al pari le persone. La diversità è premiata. Non tutti cambiano nello stesso momento, non tutti cambiano per le stesse ragioni, non tutti i cambiamenti portano ad una conclusione comune. Nessuno assomiglia al se stesso di prima ne a nessun altra persona. È il momento in cui si ferma una vera, matura coscienza di se e una concezione personale del mondo. Questa è la visione che rimarrà per tutta la vita, modificata qua e là dalle esperienze che verranno, ma la base sarà sempre la stessa. Questo è il nodo centrale della crescita, il fatto che è individuale al massimo, è unica e propria in ogni sua sfaccettatura.

Giacomo.

venerdì 27 novembre 2009

Questa croce appesa al muro.

La Croce è un Simbolo, il primo Vero emblema unificatore della fede Cristina. Si colloca a fianco degli altri simboli dominanti del Cristianesimo, il Pesce, il Ramoscello d’Ulivo, la Colomba e il Pane ma diventa quello predominante. La Croce ha due significati nella storia, l’uno l’opposto all’altro. Prima, dal 200 a.C. circa, è il simbolo della morte più atroce, la morte conferita dai romani ai ladri, ai briganti, a quelli che meno contano nella società. Poi,con la morte di Gesù Cristo, diviene il più alto e maestoso simbolo di amore, di salvezza, di sacrificio per un bene più grande. I due significati si scontrano in un momento, quello storico della crocefissione di Gesù,figlio di Dio . E’ li, in quell’istante che la croce, da oggetto di tortura diventa simbolo. Da Strumento di morte, diventa Segno di Vita. Questo Simbolo è cambiato nel tempo. Inizialmente, durante il periodo di clandestinità del Cristianesimo è una piccola “tau” e viene apposta nelle catacombe, dove venivano celebrate le prime messe, in mezzo al nome del defunto. Diviene Simbolo riconosciuto solo molto tempo dopo, quando nel 313 d.C., con un editto, l’Imperatore romano Costantino I, dà al Cristianesimo uno status giuridico, lo rende, per così dire, legale. Da questo momento la croce esce dalle catacombe e diviene sempre più nota in Europa. Ci vogliono altri quattrocento anni perché la Croce divenga Crocefisso, con l’apposizione del corpo del Cristo morente, ad indicare insieme la sofferenza e la liberazione, il dolore e l’amore. Da allora, quindi da quasi duemila anni, il Crocefisso divenne perenne Simbolo del Cristianesimo e raffigurato in migliaia di modi dai più grandi artisti della storia. Da allora la figura di Gesù Cristo in croce è tra le immagini più diffuse sul pianeta, ma non da tutti accettata. Alcune religioni infatti ne criticano la presenza nei luoghi pubblici, come le aule di scuola, ma non ne contestano la valenza storico-religiosa. Perché? Sia la religione ebraica che quella islamica, che non adottano l’iconografia del crocifisso considerano Gesù Cristo un grande profeta. Queste religioni non discutono sulla valenza del messaggio portato da Cristo, messaggio nuovo di amore, fratellanza, benevolenza verso il prossimo, ma sul suo essere figlio di Dio. L’islam lo considera perfino il più grande profeta prima dell’avvento di Maometto. Di per se quindi, non considerando per un attimo la Divinità che la religione Cristiana attribuisce a Gesù Cristo, il suo messaggio è comunque un messaggio apprezzato, nuovo, rivoluzionario. Attestato questo, cioè l’importanza di Gesù Cristo come Profeta, fondamentale allora come oggi, e del suo messaggio, inscindibile dal gesto finale di morte in Croce per la salvezza dell’Uomo, nessuno può contestare il Simbolo che deriva da tutto questo, ovvero il Crocefisso. Esso rimane Simbolo incontrastato di amore. E’ un messaggio fondamentale per tutta l’Umanità che forse, sarebbe meglio entrasse in modo più attento e costante nella morale che va formandosi nei giovani di oggi. Ancor prima che appeso in aula, sarebbe meglio che tornasse ad essere appeso nelle case.

Giacomo

"C'est une Révolte?" "Non, Sire, c'est une révolution"

Fragole e sangue. La rivoluzione. L’occupazione non c’entra, le parole vuote neanche. E' la rivoluzione contro l'ordine costituito delle cose, contro un modo di pensare e quindi un modo di agire. E’ decidere che non va. Decidere e svoltare. Appartiene ad un solo gruppo sociale, quello dei giovani che non ci stanno più, che vogliono cambiamento. Il più delle volte purtroppo è rivolta simbolica, fatta di filosofi reazionari, gesti, parole, proclami ad alta voce. Solo aria. Altre volte si incarna in un luogo, il luogo dell’insurrezione, della sovversione, della manìa, della catarsi, della liberazione. E' la solidificazione di un ideale, la struttura reale di un pensiero. E' un luogo fisico, materiale, empirico. Quel posto dove chiunque si sente libero di fare qualunque cosa. Un rifugio. Dove qualunque cosa è lecita, almeno per chi la fa. Dove tutto è subito, MA le conseguenze non vengono occultate alla mente, che crede di poter tutto. Senza limiti ne freni. E' luogo di vita vera. O meglio è il luogo dove si vivono più a fondo le esperienza umane. Dove tutto è al massimo, tutto è sfrenato, tutto è eccesso. A volte ci sono l'ebrezza più stonante, la musica più psichedelica, le luci più accecanti, le sigarette più nebbiose, le urla più stridenti, le parole più taglienti, le risa più divertite, le espressioni più folli, gli occhi più sballati, le mani più veloci, i ritmi più serrati. A volte ci sono musica tranquilla, parole LIBERE, pensieri in volo. Come quando, durante il lungo viaggio attraverso l'America Carlo Marx e Sal Paradise sedevano sul letto e parlavano per ore, cambiando argomento ogni volta che gli andava, saltando dalla religione alla pittura, dal sesso all’odore del parco la domenica mattina. Un posto così esiste solo per chi lo sa creare, per chi sa concretizzare questi che sono tutti stati d'animo interiori, che difficilmente nella realtà castrata della vita vengono fuori, che mai sono spronati, che mai sono accettati. Bisogna essere bravi, bisogna creare armonia tra persone e persone e tra persone e ambiente. Bisogna volerlo,e dopo, dopo averlo voluto lasciarsi andare e provare. LA LIBERTA’ è nostra se ce la prendiamo. Un volo ad ali spiegate di qualche ora. Come uno shot di vodka. Come un trip di lsd. Come una notte di sesso infinita. Come un esplosione. Come un lampo. Veloce, potente, totalizzante. Il massimo del casino, il massimo del silenzio. Il massimo della dolcezza e il massimo della violenza. Fragole e sangue. MA NIENTE DI TUTTO QUESTO SERVE SENZA L’ELEMENTO QUALIFICANTE DI TUTTO. LA RAGIONE. Bisogna essere vivi, sentirsi vivi. Bisogna essere veri. Per avere la forza di cambiare, bisogna essere già in grado di conoscere se stessi. La rivoluzione parte da dentro ed è totalmente, totalmente razionale. E’ sbagliato credere che sia una questione di invasamento, di allucinazione, di semplicistica voglia di rumore. E’ pura e semplice ricerca della verità. E questa non si trova a mente annebbiata. La Verità si ritrova sempre nella semplicità, mai nella confusione (Isaac Newton), ma questo non implica che in un momento di assenza di verità, per trovarla, non si debba creare un po’ di confusione. Far vedere, come si diceva, che siamo VIVI. E’ questo il punto focale, il nodo centrale, la base di tutto. Rendere noto che c’è chi non ci sta. Non solo a parole, quelle arrivano solo ad un certo punto purtroppo. MA con i fatti. Una delle meravigliose conclusioni a cui giunge Chris McCandless verso la fine del suo viaggio, e quindi della sua vita è che se si vuole qualcosa di vero, BASTA ALLUNGARE LA MANO E PRENDERSELO.

“A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d'artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno «Oooooh!»”
(On the road, Jack Kerouac)

Buonanotte.
Jack